Il tempo, forse l’argomento più gettonato quando non si sa di cosa parlare. Quando si è in quel momento d’impasse e allora spunta fuori un “bella giornata, vero?”, o ancora “oggi c’è davvero un tempo da lupi!”. Nella Formula 1 spesso ce lo si dimentica. Gli si lascia fare il suo lavoro. Ma spesso, al contrario, il dibattito si accende proprio quando le condizioni sono particolarmente estreme, e in un lato e nell’altro.
A Spa-Francorchamps, chi mastica un po’ di F1 e di automobilismo in generale sa benissimo che la pioggia è all’ordine del giorno. E quando cade una goccia, poi ne cade un’altra. E poi altre ancora. Di frequente alcune zone della pista sono più bagnate delle altre. Questo perché la pista, “immersa” nella foresta delle Ardenne, con i suoi 7 chilometri è la più lunga dell’intero calendario del mondiale.
Quando piove, a Spa, non è mai come da altre parti. E la zona di Eau Rouge-Raidillon, con quella compressione, quell’elevazione così repentina che dal vivo (dicono) fa davvero impressione, se è già pericolosa quando è asciutta lo è a maggior ragione nel momento in cui l’asfalto è bagnato e la visibilità è pressoché inesistente.
Si convive, inoltre, con i ricordi, freschi come una mano di vernice appena passata, di due morti. La prima nel 2019, quando Antoine Hubert, rimbalzando in mezzo alla pista dopo aver colpito le barriere proprio a Eau Rouge-Raidillon, venne centrato in pieno da Juan Manuel Correa; la seconda due anni fa, con il giovane Dilano van’t Hoff che, nella stessa curva, perse la vita in una gara di Formula Regional. Se Hubert perì con pista asciutta, a van’t Hoff accadde sotto la pioggia.
Ergo, asciutto o bagnato, non si può non negare (lo dicono i fatti) che a Eau Rouge si muore. E certo. Ovvio. Si può morire anche passeggiando con il proprio cagnolino. Il destino, le contingenze – ognuno scelga per sé come chiamarle – a volte possono essere inspiegabili. Quasi come se fossero più grandi di noi.
Ed è innegabile che, oltre al continuo, instancabile lavoro per cercare di aumentare la sicurezza di tutti, soprattutto quella di chi in pista poi ci scende, qualcosa sia rimasto nella mente di tutti.
Le polemiche, innescate dopo l’attesa della direzione di gara nel far ripartire una corsa che aspettava solamente di essere iniziata, sono da scindere, da separare con attenzione. L’affermazione secondo la quale si poteva dare prima bandiera verde trovano d’accordo chi scrive. Inutile, a quel punto, continuare a tergiversare, quasi come ad aspettare che la pista si asciugasse del tutto. La gara, nei fatti, è stata per la sua maggioranza disputata con pneumatici slick.
Sembra quasi una psicosi, come già detto comprensibile alla luce dei fatti sopra elencati, che frena, che blocca chi deve sventolare la bandiera verde. O ancora, bandiere rosse e/o safety-car che hanno denotato troppa prudenza, anche se il confine è sottile. Vedere una goccia d’acqua ed entrare in una spirale. Ecco, forse, anzi decisamente, questo è un po’ troppo. Le gomme da bagnato estremo, da anni non adatte per correrci (e infatti nessuno le usa), sono un altro problema. Così come un altro problema sono vetture che sembrano più catamarani che automobili da corsa.
Poi c’è l’altro lato della medaglia. Il suo rovescio. “Correre sempre e comunque”. Imperativo categorico. Perché prima i cavalieri del rischio facevano cosi. Non come queste mammolette.
Posto che non sempre il prima è meglio dell’ora, nella gara di domenica a Spa era proprio il Raidillon la zona più bagnata, quella con più rivoli d’acqua e pozzanghere così indigeste a questa generazione di vetture. Avere aspettato un’ora o poco più non è sembrata una decisione così scandalosa. Il polverone, però, si è alzato lo stesso. Sarebbe stato tutto meno comprensibile qualora Eau Rouge fosse stata l’area con meno acqua. A quel punto le lamentele potevano fondarsi su qualcosa di più concreto.
Come già ribadito, semmai quello che poteva essere gestito meglio poteva essere la ripartenza. Sarebbe stato interessante vedere i piloti partire da fermi e aspettare che attendessero lo spegnimento dei cinque semafori rossi, e invece si è deciso di fare quasi 30 chilometri dietro la vettura di sicurezza. Per concludere, molti di quelli che alcuni chiamano i cavalieri del rischio (nell’accezione di piloti che, della sicurezza, non gliene importava poi così tanto) avrebbero tanto desiderato una Formula 1 sicura come quella di adesso. Si sono battuti per ottenere quello che noi oggi diamo per scontato.
E avrebbero voluto avere qui, su questo pianeta, tanti colleghi che invece, passati a miglior vita, le corse le commentano da un altro mondo. Il pilota, per definizione, è esposto a dei rischi continui. Si sa a cosa si può andare incontro. Ma non per questo si vuole andare incontro.
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