Il Gran Premio di Monaco ci ha messo di fronte a un bivio. Con la decisione di aggiungere una postilla regolamentare per la corsa dei rail e del glamour, ovvero di rendere obbligatorie due (anziché una) soste ai box, la corsa del Principato ha emesso un responso che ha provocato reazioni disomogenee, e nel paddock e fuori. Alla maggior parte degli addetti ai lavori, dei piloti e dei tifosi, però, l’esperimento non è piaciuto. O meglio, per essere diretti, è fallito. Si potrebbe dire che, per molti, è stato un tutto fumo e niente arrosto. Tanto rumore per nulla. ‘Alla fine, le posizioni non sono poi granché cambiate’ (cit.).
Personalmente non sarei così critico. Certo, vedere piloti rallentare, fare da tappo agli altri per permettere l’esecuzione di una strategia di gruppo, di un lavoro di squadra – vedasi il team Racing Bulls con Isack Hadjar e Liam Lawson oppure la Williams con Carlos Sainz e Alex Albon – non è stato proprio il massimo. Anzi, eticamente parlando sarebbe, è, qualcosa da condannare. Però, come biasimarli? Hanno sfruttato le pieghe del regolamento, l’area griglia, il fatto che a Monaco con questi carri armati non si sorpassi più, per ottenere risultati, punti, preziosi. Non gliene si può sicuramente fare una colpa.
Il fatto, piuttosto, è un altro. Volere da Monaco qualcosa che non è Monaco. Volere i sorpassi in una gara dove, di sorpassi, da che mondo e mondo, se ne sono sempre visti con il contagocce. Certo, ultimamente la situazione pare essere peggiorata. Ma il motivo non è sicuramente da ricercare nella pista, bensì nella concezione di queste monoposto. Carri armati, come detto prima. Ingombranti, larghe, lunghe, pesanti, come elefanti che si muovono in una cristalliera. E però, prendendo in prestito un’espressione britannica che ha sempre a che vedere con i pachidermi, il vero ‘elefante nella stanza’ – dicasi di una verità, evidente a tutti, che viene però ignorata – sono proprio le macchine.
Insomma, diciamo che rimuovere le macchine dall’equazione sarebbe come levare le virgole da un testo. Nonostante questo, nonostante sia chiaro perché quel testo sia incomprensibile, tutti dicono che la colpa è delle parole. Quando, invece, non lo è affatto. Monaco, al di là dell’aspetto fascinoso, è un luogo – richiamandoci alla scorsa puntata della collana – di culto, un posto di storia, di tradizione. E come tale va preservato. Come si fa, d’altronde, a chiedere a una pista che non è mai davvero cambiata (anche perché sarebbe un tantino complicato, gli spazi sono quelli che sono) di farlo? Il fatto, spiegando la metafora di prima, è che vediamo l’elefante (le virgole che mancano, ossia le macchine ingombranti) ma preferiamo fingere che non esista (la colpa è delle parole, ossia dei sorpassi che non ci sono).
Ma quindi, alla fine della fiera, le due soste hanno funzionato oppure no? Se si volevano più sorpassi no, non ha funzionato. Se si voleva più imprevedibilità, fermo restando che si trattava di un’imprevedibilità comunque un po’ fine a se stessa, l’esperimento ha dato risposte più confortanti. Per avere più sorpassi bisogna cambiare le macchine. Quelle dell’anno prossimo saranno un po’ più leggere, ma non leggerissime, più piccole, ma non piccolissime, e più strette, ma non strettissime. Tradotto, difficile che basterà. Ma se da Monaco ci si aspettano 200 sorpassi, allora si rimarrà delusi.
Perché, alla fine, è tutta una questione di aspettative. E, da questo punto di vista, Monaco dovrebbe essere trattata come una specie di ‘one-off’, di cosa a sé stante. Anche perché lo è. Bilanciare lo spettacolo con l’aspetto puramente sportivo è sempre esercizio difficile. Tuttavia molto spesso queste due entità si amalgamano, vanno a braccetto, si confondono. Mai, però, far prevalere lo show sullo sport. L’andazzo, da qualche tempo a questa parte, pare essere questo. A Monaco, però, si è provato a spettacolarizzare sulla base di una scelta sportiva. Questo, indubbiamente, non può che far piacere.
Altro discorso, ad esempio, sarebbe l’introduzione permanente del formato Sprint. Anche quello, in realtà, sarebbe una spettacolarizzazione (o, quantomeno, un tentativo di spettacolarizzare) sulla base di un regolamento sportivo che viene cambiato. Però in quel caso, più che di una modifica, per così dire ‘di un intervento fatto con il bisturi’, si tratta di uno stravolgimento, di una trasfigurazione della tradizione. Per questo motivo vedrei l’introduzione delle due soste obbligatorie un fatto meno ‘grave’ rispetto a un calendario composto di soli weekend Sprint. Il dibattito, naturalmente, è aperto.
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